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Parla Majorino: “Il referendum un passo, ne parliamo alle politiche”

Parla Majorino: “Il referendum un passo, ne parliamo alle politiche”

Il membro della segreteria nazionale Pd

«Il tema dell’astensione incide sulla democrazia, ma gli elettori che hanno partecipato non sono pochi. Il quesito sulla cittadinanza? Paghiamo la potenza del messaggio negativo sull’immigrazione. Ma la battaglia era giusta e non finisce qui»

Photo credits: Leonardo Puccini/Imagoeconomica
Photo credits: Leonardo Puccini/Imagoeconomica

Pierfrancesco Majorino, Segreteria nazionale del Partito Democratico, capogruppo Dem al Consiglio regionale della Lombardia, scrive il direttore de Il Foglio Claudio Cerasa: il referendum è una sconfitta del centrosinistra, non “della democrazia”. Lei si sente partecipe del “flop act” (copyright Cerasa)? Mi permetto di prenderla da un altro lato. Il referendum non è andato come desideravamo, inutile girarci attorno. Ma è una tappa. E si deve andare avanti, non certo tornare indietro. E poi c’è il tema enorme dell’astensione, non può essere sminuito e riguarda certamente la qualità dei processi democratici. Incide sulla democrazia. È infatti un dato che accompagna oramai ogni turno elettorale e deve preoccupare e far riflettere. C’è una sorta di blocco sociale dello spaesamento e del disincanto. Si tratta in gran parte di persone che pensano che la politica – tutta – non conti nella vita e nella società o che alla fine nulla cambi. Ovviamente a questa componente di astensionismo se ne è aggiunta un’altra che si è “mobilitata” stando a casa in ragione della campagna del “me ne frego” della destra. Strada legittima ma micidiale per gli effetti sulla qualità del rapporto tra cittadini e istituzioni. Per quel che riguarda il centrosinistra penso che dobbiamo essere equilibrati. Nel contesto dato, gli elettori che hanno deciso di partecipare e di dire la propria non sono pochi. E i “Sì”, non solo quindi i “partecipanti”, sono di più, almeno rispetto ai quesiti del lavoro, degli elettori che hanno portato Giorgia Meloni al governo. Dunque, se è evidente che il referendum non ha raggiunto il suo scopo rappresenta comunque un pezzo del cammino che ci porta alle elezioni politiche.

Sotto il fuoco, anche quello pseudo amico, è finita Elly Schlein: succube di Landini, subalterna a Conte, prigioniera di una vocazione minoritaria… Siamo alle solite, nel PD si è aperta la caccia al segretario? Mi auguro che nessuno sia tanto matto dall’avviare oggi la “caccia alla segretaria”. Peraltro, dall’aria che sento in giro mi pare di poter dire che Elly Schlein sia dentro al partito – e parlo degli iscritti, non più solo degli elettori delle primarie – molto più forte di prima. Questo anche perché è netta sui contenuti, determinata e insieme a ciò dentro e fuori il PD “ostinatamente unitaria”, inclusiva. Mi auguro che questo spirito, in un momento tanto duro e difficile per il nostro Paese, venga colto da tutti. Ricordo che Elly Schlein è arrivata in un momento nel quale i sondaggi migliori ci davano al 15% e si discuteva del nostro scioglimento. Nei talk show si discuteva allegramente della nostra inutilità, il salottino degli opinionisti se la rideva pensando alla fine del PD. Parevamo essere in liquidazione. Oggi siamo, anche grazie all’impronta data da Elly Schlein, quelli delle numerose vittorie alle amministrative nonché del 24% delle europee e in tutta evidenza il pilastro irrinunciabile per qualsiasi progetto alternativo alla destra. In questo contesto son convinto che non ci saranno strappi particolari, semmai, di certo, si dovrà porre mano ad un’accelerazione per costruire tutto quello che è davanti a noi. Una proposta forte per il futuro del Paese, che poi significa, idee irrinunciabili, alleanza ampia, persone credibili.

La destra esulta, con i corifei mediatici al seguito: volevano suonare il governo, sono stati suonati loro (Schlein, Landini, Conte, Bonelli, Fratoianni…). La destra ha fatto molto molto di peggio nei giorni scorsi: ha cancellato mediaticamente il referendum, silenziandolo. Ha guidato la campagna delle astensioni utilizzando le alte cariche dello Stato. Oggi fa la voce grossa e arrogante. La cosa non mi preoccupa e soprattutto non mi stupisce. Mi tocca citare nuovamente Schlein: ne parliamo alle Politiche. Aggiungo che la destra continua l’opera di fantasioso racconto dell’Italia che non c’è. Siamo a crescita zero, manca totalmente lo straccio di una politica industriale, sul terreno fiscale c’è una promessa smentita al giorno e sul welfare lo spettacolo è semplicemente indecente. Si accaniscono su chi dissente e si dimenticano chi è in lista d’attesa per una visita medica o per l’accesso alla casa popolare.

Da persona che sia nell’Europarlamento che a livello locale, Comune di Milano e Regione Lombardia, si è sempre battuto per l’inclusione, che riflessioni le porta a fare il risultato, alquanto deludente, del referendum sulla cittadinanza? Io credo che paghiamo la potenza del messaggio negativo sull’immigrazione. Anni nei quali una narrazione drogata, insieme all’assenza di forti politiche sociali ha arato il campo nel segno della diffidenza e dell’insicurezza. Si è di fronte ad una vicenda mondiale e pure al laboratorio italiano del rancore. Speravo in un risultato diverso, e il fatto che in alcune grandi città le cose siano andate diversamente non mi consola. Però non siamo pentiti: la battaglia era giusta, diversi milioni di persone comunque la hanno sostenuta, il quesito è nato dal protagonismo delle reti dei nuovi cittadini e noi ci siamo, come era doveroso, messi al servizio. Ora non fermiamoci. Serve dare battaglia e non finisce certo qui. Ciò riguarda i quartieri, le nostre comunità, i luoghi dove questo discorso è più complicato, nonché il Parlamento, dove abbiamo da mesi depositato una proposta di riforma seria e organica a prima firma dell’onorevole Bakkali. Insieme a questo c’è un altro ragionamento da fare, che ho ribadito tante volte anche con voi. Nella paura verso gli immigrati, aspetto che è entrato nell’urna, c’è spesso la paura verso il presente e verso il futuro. Guai a sottovalutare e pure a demonizzare aspetti simili. Questo implica ricette serie nella gestione dell’immigrazione – noi abbiamo ad esempio un’ottima proposta di legge per il superamento della Bossi Fini, a prima firma Delrio- ma soprattutto un posizionamento netto sulle questioni sociali e del lavoro. E in questo quadro siamo in cammino. Le rassicurazioni sul tema migratorio non verranno dal buonsenso delle statistiche su quanto serva l’immigrazione stessa, un mantra giusto, corretto, perfino irrinunciabile ma che non parla assolutamente a chi si mostra diffidente o impaurito. Ma verranno solo dal fatto che si sarà sempre più credibili sul piano delle garanzie e della protezione sociale per tutte e per tutti. Lo ripeto spesso e ne sono convintissimo. Quella che va fatta saltare è la saldatura tra due sentimenti…

Quali? Il sentimento dell’intolleranza e quello dell’insicurezza. Al primo si deve rispondere con durezza al secondo invece si deve rispondere con una politica che rassicuri e accolga. Molti cittadini devono sapere di non essere soli. E questo riguarda il salario, la previdenza, la casa, l’accesso alle cure e anche l’intransigenza sul tema della legalità e della sicurezza urbana. Inoltre, voglio tornare su di un tema tante volte sollevato da Livia Turco in questi anni, e cito Livia Turco non a caso visto l’enorme lavoro riformatore che ha portato avanti 25 anni fa. Si deve “fare società” e “creare cultura dell’incontro e della convivenza”. Il legame tra le persone è un punto cruciale. In questo quadro amministratori locali del PD, terzo settore, cittadinanza attiva, associazionismo migrante possono giocare una partita importante.

Di fronte alla grande manifestazione di sabato scorso a Roma e ai risultati dei referendum, c’è chi ha riesumato il vecchio assunto piazze piene, urne vuote… Direi che è proprio una considerazione sbagliata. Proprio per i risultati che abbiamo ottenuto in tutti questi mesi alle elezioni vere. E sono convinto che in vista delle regionali faremo un enorme lavoro nella direzione giusta, rafforzandoci ancora. Semmai ora il punto è come passiamo dalla piazza e dalle campagne elettorali delle amministrative e da quella referendaria alla costruzione di un progetto alternativo per il futuro del Paese. Dobbiamo avere la serietà e la lungimiranza di chi sa tenere assieme contenuti incisivi, tosti, non sussurrati a mezza voce, e ampiezza dell’alleanza politica e sociale. Proprio il referendum su questo è utile se penso ad esempio alla centralità del lavoro, mi viene da dire perfino al di là del merito dei quesiti, della lotta alla precarietà, delle misure riguardanti la sicurezza. Tutti discorsi che ovviamente vanno sviluppati ben oltre il contenuto referendario. E proprio per questo diventano centrali le questioni che abbiamo già posto: il salario innanzitutto. E poi il diritto alla Casa. Un piano che abbiamo elaborato e che ci auguriamo possa diventare patrimonio dell’intera coalizione. O ancora il diritto alla Salute, il rilancio della sanità pubblica e della scuola. Politiche della transizione ecologica e giusta. Insomma: noi siamo in cammino. Infine, mi consenta di aggiungere una cosa. La piazza di sabato scorso non è stata quella di una “manifestazione molto ben riuscita”. È stato un tratto identitario irrinunciabile, non un spot. È una piazza cruciale sul piano del “senso” molto prima che del “consenso”. Perché a fronte della pulizia etnica, dello stragismo di Netanyahu e delle sue mani sporche di sangue, non si poteva assolutamente più fornire risposte parziali. A Roma il 7 giugno c’è stata una delle manifestazioni più grandi svoltesi in Europa e negli Stati uniti in tutti questi mesi. Un fatto fondamentale. Chi fa battutine sulle piazze piene e le urne vuote, oltre a non vedere che quelle urne tanto vuote non lo sono, dovrebbe riflettere sul fatto che ironizza su centinaia di migliaia di persone che hanno deciso di non voltarsi dall’altra parte di fronte ai cadaveri di sedicimila bambini morti se mi permette qualcosa che c’entra poco con il teatrino delle dichiarazioni ad effetto

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